Share

Archivio digitale mostra piglio

Archivio digitale mostra piglio

La Sagra dell’uva, ricordo dei momenti di festa legati alla fine della vendemmia, è da sempre culto dei cittadini pigliesi che, ogni anno, nel primo finesettimana di Ottobre, con onore e fierezza, ne tramandano le grandi qualità; è una festa creata appositamente per promuovere e valorizzare, oltre al rinomatissimo Cesanese, anche i prodotti tipici del luogo. Il paese si arricchisce di stand e botteghe addobbati d’uva e, i cittadini sfilano, cantano e ballano stornelli e canzoni tipiche in dialetto, vestiti con costumi ciociari.

Foto archivio Assunta Pelone

Donne fotografate nella campagna pigliese agli inizi del ‘900 durante la vendemmia, con vestito tipico ciociaro, semplice e umile perché adibito al lavoro. Le donne indossavano una gonna ampia e un corsetto con sopra un grembiule di lana o stoffa; ai piedi, ovviamente, le caratteristiche ciocie, tradizionali e caratteristiche calzature con cinte di pelle di bue, d’asino o cavallo. Secondo alcune fonti la ciocia è un’antica eredità lasciata da un’influenza etrusca sulla regione laziale; secondo altri, invece, questa calzatura deriva dai calzari romani. Oggi vengono usate generalmente per festività a tema contadino come la Sagra dell’uva, oppure, seguendo il ritmo del tamburello o dell’organetto, per danzare balli folkloristici, come ad esempio il famoso “Saltarello”. In tempi passati, però, la ciocia veniva utilizzata prevalentemente dai contadini o dai pastori mentre zappavano la terra o controllavano il bestiame.

Foto archivio Massimi-Berucci

Oggi siamo abituati a matrimoni d’amore, ma un tempo, molto spesso, il matrimonio era un accordo, qualcosa di prestabilito in base ai vantaggi economici che poteva portare alle famiglie. I due fidanzati potevano incontrarsi e parlare solo se c’era qualcuno della famiglia a monitorare la situazione e il giovane entrava in casa della futura sposa solo dopo il fidanzamento ufficiale. Il giorno delle nozze la sposa veniva accompagnata dal padre, mentre lo sposo dalla madre; non si lanciava il riso come si è soliti fare oggi, ma i confetti, e – per chi non poteva permetterselo – i fagioli bianchi; lo sposo doveva tagliare un nastro e gli invitati, per dovere, dovevano donare confetti e denaro. Per chi poteva permetterselo, subito dopo le nozze c’era la partenza per la luna di miele; per chi non poteva, invece, si prevedeva una festa più lunga, che durava fino all’alba. Si dice, inoltre, che per gli sposi che non partivano per il viaggio nuziale c’era un’usanza particolare, ossia che dopo la prima notte di nozze, la madre dello sposo si recava a controllare le lenzuola per vedere se tutto era andato secondo le regole… ma questo rimane un mistero.

Foto famiglia Pietrangeli

Bambini e ragazzi appartenenti all’organizzazione giovanile fascista Opera nazionale Balilla, fotografati nella loro tipica uniforme. Nata nel 1926, l’Opera Nazionale Balilla inquadrava tutti i ragazzi fra gli otto e i diciotto anni (divisi, seconda l’età, in “balilla” e “avanguardisti”), e forniva loro educazione fisica, istruzione “premilitare” e un minimo di indottrinamento ideologico. Successivamente, per i bambini fra i sei e i dodici anni fu creata un’altra organizzazione, detta “Figli della lupa”.

Foto della famiglia Paolo Giorgi

Prima dell’Unità Nazionale l’istruzione era spesso sotto il controllo della Chiesa e le lezioni, per la maggior parte, venivano impartite dai sacerdoti che ricoprivano anche il ruolo di maestri. Gli obiettivi principali della scuola erano il rispetto verso gli altri e la promozione della libertà; le classi non erano necessariamente costituite da bambini della stessa età, ma erano spesso miste, come questa classe fotografata nel 1922. Dopo l’Unità d’Italia la scuola fu resa obbligatoria così da avere progressi nel sistema educativo.

Foto famiglia Paolo Giorgi

Dopo una stancante giornata di lavoro, una delle usanze preferite da parte degli uomini del posto era senz’altro riunirsi in un’osteria per mangiare, bere e scrollarsi di dosso tutti i problemi. Talvolta, però, si finiva per esagerare: ne è l’esempio la Passatella, il gioco dell’osteria che spesso finiva con insulti e liti; gli uomini che si riunivano nell’osteria si tassavano in parti uguali per comprare il vino, poi si contava e chi vinceva aveva il diritto alla prima bevuta e a nominare due persone: il “Padrone” e il “Sotto”. Quest’ultimo si poteva definire il reale capo della passatella in quanto il Padrone distribuiva le bevute in base alle indicazioni del Sotto. Gli uomini che non riuscivano a bere dovevano reggere l’olmo, mentre nervosamente guardavano gli altri bere.

Foto famiglia Paola Cittadini

Anche se l’epoca in cui viviamo è portatrice di innovazione, ha lasciato indietro una serie di mestieri che la maggior parte delle persone oggi purtroppo neanche conosce; erano mestieri poveri, mal pagati, minori, ma allo stesso tempo molto utili e pratici. Tra questi, ad esempio, c’era il bastaio, ossia un artigiano di basti fabbricati per gli animali da soma. Il basto, composto dallo “straccale” e dal “posolino”, è una grossa e grezza sella di legno e di cuoio imbottita di paglia che si pone sul dorso delle bestie da soma per caricarvi ceste, legna, sacchi e altri oggetti utili al lavoro. Oggi non si utilizzano quasi più le bestie da soma, perciò è un mestiere praticamente in via di estinzione.

Foto famiglia Pietrangeli

Il ricamo è un’arte antica di grande fascino e molto spesso le giovani donne impiegavano gran parte del loro tempo per diventare abili ricamatrici e imparare i trucchi del mestiere. Generalmente le suore si dedicavano all’insegnamento di questa umile arte, sia per insegnarla alle nobildonne che a quelle più povere. La preparazione del corredo non era semplice e poteva durare anche qualche anno. Il corredo in sé era essenziale, poiché oltre ad essere un obbligo per la sposa, era l’elemento fondamentale per presentarsi bene ai nuovi parenti. I ricami venivano fatti su telaio ed erano spesso molto diversi l’uno dall’altro, poiché anche se i disegni venivano proposti dalle suore, ogni ragazza sceglieva il proprio. I tessuti utilizzati erano generalmente cotone, lino e mussola di cotone per le più abbienti e il filo per il ricamo era quasi sempre di colori tenui. Le tecniche di ricamo erano solitamente il punto croce e il punto erba.

Foto famiglia Camusi

L’Ufficio Postale di Piglio si attivò il 1° dicembre del 1880. Inizialmente le direzioni postali di alcune città nel Lazio dipendevano dallo Stato Pontificio e, dopo la costituzione del Regno, l’Italia attuò l’unificazione del servizio postale. Il 1° ottobre 1870 vennero ritirati dagli uffici postali tutti i bolli pontifici e sostituiti con quelli italiani, così le poste passarono sotto l’amministrazione italiana. Con il Governo Pontificio il trasporto della Posta avveniva mediante “Diligenza postale”, ma si trasportavano anche passeggeri e merci; dopo la loro attivazione, la posta fu affidata ai servizi ferroviari e alle autolinee.

Foto archivio comunale

La transumanza, ossia lo spostamento periodico del bestiame, oggi non è più molto praticata, poiché i mezzi di trasporto si sono impossessati anche di questa usanza, dimezzandone di molto le tempistiche. La transumanza era una ricchezza per i pastori ciociari che transitavano per il nostro paese e si mettevano in cammino ogni giorno lungo le vie dalla montagna verso la pianura, sempre alla ricerca di pascoli freschi.

Foto famiglia Pietrangeli

Il Castello di Piglio risale all’anno Mille circa; esso è costituito da due parti differenti costruite in epoche diverse, una parte più alta (Palatium superiore) e una parte più bassa (Palatium inferiore), aventi un dislivello di circa 25 metri l’una dall’altra. Il castello basso ha attualmente due piani con una sistemazione esterna ottocentesca ed è la parte meglio conservata; è posta al lato nord dell’abitato, dove inizia la via Maggiore, proprio dove risiedeva l’accesso principale del paese, la Porta “da capo”. L’ingresso al paese è, infatti, costituito dal grande arco, l’Arco della Fontana; alla sua destra, una suggestiva trifora tardo – romanica.

Foto famiglia Paolo Giorgi

La domenica e durante le feste più importanti, i cittadini si vestivano “a festa” e indossavano il vestito buono che veniva curato e conservato proprio in onore di questi eventi: gli uomini solevano indossare calzoni stretti che arrivavano fino al ginocchio, una camicia con sopra il gilet o la giacca e un cappello; spesso il tutto era accompagnato da un bastone da passeggio, un oggetto di uso comune utilizzato dalle persone per sorreggersi e, in casi più rari, per eleganza o come mezzo difensivo.

Foto famiglia Pietrangeli

Gruppo familiare vestito a festa. Uno solo era il vestito della festa, quello ciociaro. Le donne, in particolare, indossavano un completo costituito da gonna ampia e un corsetto con sopra un grembiule di lana o stoffa; il tutto era ornato da un’imponente collana di corallo rosso e degli orecchini sontuosi, ossia i pendenti, anch’essi in corallo rosso o in oro; ai piedi, ovviamente, le caratteristiche ciocie. La logica familiare di un tempo era diversa da quella di oggi: case strette, famiglie grandi. Mentre oggi la maggior parte delle persone tende a volere case esageratamente spaziose per conviverci anche solo in due, prima non funzionava così, ma all’interno di un’unica casa potevano vivere anche ben tre famiglie. Il peso della famiglia, in genere, gravava sull’uomo; le donne badavano alla casa, aiutavano il marito nei lavori dei campi; i bambini più piccoli le seguivano, spesso infatti venivano portati sulla “canestra” posta sul capo; le ragazze più grandi spesso aiutavano i genitori o facevano altri lavori per contribuire al sostentamento della famiglia.

Foto famiglia Pietrangeli

Quella che per i giovani di oggi è una semplice curva da attraversare, un tempo è stata il punto d’incontro dove molte generazioni hanno consumato amori, amicizie, storie da raccontare e talvolta anche litigi da estinguere; la “Giravota” era il muretto dove le ragazze potevano sedersi per raccontare le ultime novità; era il punto di partenza per fare una passeggiata e arrivare fino al Convento di San Lorenzo; era il luogo perfetto per un forestiero che voleva ammirare la panoramica del paese; era, insomma, tutto quello di cui si aveva bisogno allora, cioè un porto sicuro.

Foto famiglia Paolo Giorgi

La responsabilità del sostentamento della famiglia spettava all’uomo (che perlopiù era un contadino o un pastore) e gli arnesi da lavoro più utilizzati erano la zappa, l’aratro, la roncola. Non sempre, però, le dure fatiche quotidiane portavano a un guadagno; la povertà era sempre presente e l’alimentazione era un tasto dolente, tanto che talvolta risultava difficile riuscire a sfamare sia la propria famiglia che il proprio bestiame e, davanti la scena di buoi magrissimi e sofferenti, spesso si era totalmente impotenti.

Foto famiglia Pietrangeli

Foto di fine ‘800 che ritrae buoi da lavoro di razza maremmana dalle lunghe corna, che trasportano sul carretto selci per pavimentare una delle strade presenti nel borgo di Piglio; la loro mole massiccia caratterizzata da solidità, robustezza scheletrica e tonicità muscolare ha comportato per molto tempo il loro sfruttamento nei lavori troppo pesanti per gli uomini.

Foto archivio Massimi-Berucci

Uno degli obiettivi principali per il territorio di Piglio nella metà del ‘900 è stato lo sviluppo sostenibile delle aree pascolive e forestali, quale strumento per la valorizzazione delle loro potenzialità; a tale scopo fu intrapresa una consistente opera di rimboschimento dei terreni nudi, quali erano le montagne sulle quali sorge Piglio chiaramente visibili in questa foto, e questo ha comportato il miglioramento delle risorse forestali, attraverso rinfoltimenti e piantagioni ai fini del contenimento e della stabilizzazione idrogeologica dei territori e della regimazione delle acque meteoriche.

Foto famiglia Paolo Giorgi

Una delle grandi feste che da sempre si celebrano a Piglio è quella della Madonna delle Rose; questa si festeggia principalmente in due occasioni: il giorno seguente a quello della Pentecoste e il 30 ottobre, un momento di grande unione in ricordo anche del celebre intervento miracoloso, da parte della stessa, che portò al debellamento della peste del 1656. Si narra, infatti, che alcune persone che stavano pregando davanti a un’antichissima immagine della Vergine dipinta su una roccia si accorsero che le rose appassite postevi davanti improvvisamente rifiorirono e in quello stesso istante essi ottennero la grazia della liberazione del paese dall’epidemia che ne aveva decimato la popolazione. È da sempre una festa molto sentita, vi partecipano infatti le forze dell’ordine, i rappresentanti dell’amministrazione e, ovviamente, la maggior parte dei cittadini. In mezzo alla folla, tra canti e preghiere e preceduta dalla banda musicale, passa la “Macchina” della Madonna delle Rose che, attraversando tutto il paese, viene portata a spalla dai vari fedeli dalla Chiesa di Santa Maria al Santuario.

Foto archivio Assunta Pelone

Si narra che un tempo la custodia della chiesa della Madonna del Monte spettasse ad un eremita, il “Romito”, ritratto in questa foto del 1909. Il Romito era un uomo ritiratosi in solitudine per consacrarsi a Dio dedicandosi alla preghiera; tutti lo ammiravano e lo trattavano con devozione e rispetto; infatti, quelle poche volte che si mostrava in paese per chiedere un po’ di elemosina, trovava sempre una porta aperta e mani pronte ad accoglierlo.

Foto archivio Massimi-Berucci

In quella che oggi è conosciuta come la pista ciclabile di Piglio, in un tempo non troppo lontano, transitava con fare lento un piccolo trenino della linea Roma – Fiuggi. Questa ferrovia aveva una lunghezza di 137, 379 km e nel 1916 venne inaugurato il primo tronco Roma – Genazzano per poi diramarsi negli anni a venire. Era una tratta potremmo dire non troppo breve, poiché attraversava le borgate romane, da Tor Pignattara fino a Finocchio, Pantano Borghese, San Cesareo, Colonna fino alla stazione di Zagarolo. Da qui si potevano raggiungere le stazioni di Palestrina, Cave, Genazzano, Olevano Romano, La Forma, Piglio, Acuto, per poi arrivare a Fiuggi e, infine, a Frosinone.

Foto famiglia Pizzale

La famiglia era la cosa più importante, ma ogni famiglia aveva un’ancora di salvezza a cui affidarsi per superare anche le più astruse difficoltà e questa era quasi sempre la fede in Dio; la fede era rappresentata da un mediatore, un capo spirituale: il prete. In questa foto, infatti, scattata nell’ottobre del 1910 sotto l’arco dell’Arringo, si nota come egli sia una fonte di fiducia e di sicurezza, di benevolenza e sostegno morale. Il prete era colui che diffondeva la parola di Dio, che ne spiegava i significati più nascosti, che riaccendeva la fede laddove la povertà e la vita difficile rischiavano di farla vacillare.

Foto archivio Massimi-Berucci

Un tempo le case non erano molto grandi, né tantomeno spaziose all’interno; ne è un esempio questa, fotografata nell’ottobre del 1910 e ancora presente nella piazzetta di Santa Lucia. Gli abitanti più ricchi potevano permettersi una cucina, due o tre stanze da letto, una stanza adibita alla conservazione del vino e dei cibi e un modesto bagno; la cucina era molto semplice e il camino era sicuramente la parte più ambita da tutti; i muri erano di pietra viva e non avevano intonaci esterni; il pavimento interno era in genere in legno o in mattoni di terracotta, ma quello che sicuramente non mancava in nessuna casa, sia che gli abitanti fossero ricchi o che fossero poveri, era uno spazio adibito alle immagini sacre della Madonna o di Gesù.

Foto archivio Massimi-Berucci

I dialetti sono un bene culturale immenso da apprezzare e preservare poiché rappresentano le radici della nostra cultura. Il dialetto di Piglio, derivante dall’uso popolare del latino, come tutti gli altri dialetti è un patrimonio linguistico speciale; oggi, purtroppo, anche il dialetto pigliese sta scomparendo, ma fortunatamente ci rimane qualche perla preziosa identificativa del nostro territorio, che con fierezza e rispetto dobbiamo mantenere viva.Una di queste ci è stata lasciata in eredità dal poeta pigliese Alessandro Pietrangeli, che soleva scrivere le sue poesie anche in dialetto:

Madalena la ciociara

Madalena ci viene a rigazzare,
ci viene a colletunno pure tune;
portame la fune coglio runcio
calla macchia me ce lancio.
Aspetta le cioce ca lengrasso,
stongo scazza, non cammino nu passo;
tiengo agliu foco la pizza calla,
cogli cavoli cotti alla patella.
Tiengo sta mammoccia tanto male,
da quanno se ittata pelle scale;
non dorme, senza ninna….
Sta frabutta vo la zinna.

Azzecca e vie aiecchincima,
ch’io vaio alla cantina;
pigliame la copella,
la canestra la zappatella.
Maritimo iumbriacone
Aito a rivatte iu zappone;
ieri sera da Minicuccio,
è rivenuto come nu ciuccio.
Da quanno tiengo sto marito
ch’è nu coso rammollito;
nu pupazzo e nu nuiuso
nu scarciofeno spinuso.

Foto famiglia Pietrangeli

Castello basso, fronte verso il borgo; la strada interna passa a destra, sopra il pendio, quella esterna a sinistra, sotto il piede dello sperone.

Foto archivio I.S.A.L.M.
(Istituto di storia e di arte del Lazio meridionale)

Arco di ingresso al paese sotto il castello alto, con passaggio aggiunto in epoca successiva.

Foto archivio I.S.A.L.M.
(Istituto di storia e di arte del Lazio meridionale)

Follow by Email
Instagram
× Live chat